Chiunque abbia cercato di orientarsi tra le diverse opzioni di investimento si è trovato almeno una volta davanti alla domanda: meglio ETF o fondi comuni?
È una domanda legittima.
La scelta tra ETF e fondi comuni non è semplicemente una questione di “costi più bassi” o “performance più alte”. Si tratta di capire cosa si desidera ottenere dai mercati finanziari e cosa serve per costruire un portafoglio efficiente e coerente con i propri obiettivi.
Prima ancora di chiedersi quale strumento sia “migliore”, conviene fermarsi un momento e valutare il problema da un’altra prospettiva.
1. Battere il mercato o esporsi al mercato in modo efficiente?
Per anni, i fondi comuni hanno venduto l’idea di poter “battere il benchmark”. Ma la realtà dice altro.
Secondo i dati più aggiornati (fonte: SPIVA), nel 2024 circa il 65% dei fondi attivi che investono in large cap statunitensi ha sottoperformato il proprio indice di riferimento.
Ma la statistica più significativa, per gli investitori di medio-lungo periodo, arriva su un orizzonte di 15 anni: oltre il 90% dei fondi attivi non riesce a tenere il passo dell’indice.


I mercati sono in gran parte efficienti. E competere contro un indice ben costruito è un’impresa ardua, soprattutto dopo aver pagato le commissioni di gestione.
Gli ETF, al contrario, non cercano di “fare meglio”. Replicano l’indice. Lo fanno con trasparenza, efficienza, e costi bassi.
Il punto non è solo chi “vince” — ma quanto costa provare a vincere, e con quale probabilità di riuscirci.
2. Quanto costa un fondo comune? E quanto rende?
In Italia, il costo medio annuo di un fondo azionario si aggira attorno al 2%. Negli Stati Uniti siamo sotto l’1%. Negli ETF, siamo spesso sotto lo 0,30% in Europa e sotto lo 0,10% negli Stati Uniti.
A questo si sommano altre componenti spesso trascurate:
- Costi di ingresso e uscita;
- Commissioni di performance;
- Carenze di trasparenza nei portafogli sottostanti.
Non solo: molti fondi comuni venduti in Italia non sopravvivono a se stessi. Vengono chiusi, fusi, ristrutturati. E ciò altera le statistiche. È il cosiddetto survivorship bias: guardiamo solo ai fondi “sopravvissuti” e dimentichiamo quelli scomparsi. Un errore che distorce la percezione della qualità media.
Il risultato? Un costo elevato per una performance mediocre e poco prevedibile.
3. Scegliere lo strumento… o la strategia?
É importante scegliere lo strumento giusto, ma prima di scegliere lo strumento bisogna aver chiara la strategia da perseguire, l’obiettivo da raggiungere.
Theodore Levitt, un professore di marketing della Harvard Business School è noto per aver affermato:
“People don’t want to buy a quarter-inch drill. They want a quarter-inch hole.”
Che possiamo tradurre con:
“La gente non vuole comprare un trapano da 0,6 cm. Vuole un buco nel muro da 0,6 cm.”
Non interessa lo strumento in sé (come il martello o il trapano), ma il risultato che si ottiene (come il buco nel muro).
Analogamente, possiamo dire che non importa solo lo strumento quando si parla di gestione finanziaria ( ETF, fondi comuni, etc.) ma il risultato che si vuole ottenere.
Gli ETF sono uno strumento. Il valore sta nel come li si usa.
Possono essere considerati come dei mattoni per costruire architetture patrimoniali solide. Ogni portafoglio deve nascere da un’analisi del cliente, delle sue esigenze, della sua tolleranza al rischio. Nessun portafoglio standard. Nessuna replica meccanica di indici. Personalizziamo le nostre soluzioni d’investimento e lo facciamo partendo sempre dall’obiettivo del cliente; sia esso una famiglia o un impresa.
Quindi, ETF o fondi comuni?
È una domanda mal posta. La vera questione è: chi costruisce il tuo portafoglio, con quale metodo, e per quali obiettivi?
In un settore affollato da strumenti replicabili e storytelling commerciali, il valore reale sta nella strategia, non nel prodotto.
Il nostro lavoro di consulenti indipendenti ci porta a costruire un portafoglio che funzioni davvero per il cliente e sia sostenibile nel tempo. Con strumenti trasparenti ed efficienti.