Questo articolo sintetizza i risultati della tesi magistrale discussa nel 2025 da Andrea Balsamello presso l’Università LIUC – Carlo Cattaneo, avente come relatore il Prof. Renato Viero.
Il lavoro affronta un tema centrale nei portafogli degli investitori privati: l’efficacia delle strategie basate sui dividendi nel contesto post-crisi del 2008. Attraverso un’analisi quantitativa condotta su un campione globale di ETF e titoli azionari, la ricerca mette in luce come i profondi cambiamenti strutturali degli ultimi quindici anni, politiche monetarie espansive, crescita dei buyback, innovazione finanziaria e maggiore accesso ai mercati, abbiano modificato le dinamiche di rendimento e rischio di queste strategie.
L’obiettivo di questa sintesi non è divulgativo, ma analitico: presentare evidenze empiriche aggiornate e fornire elementi utili alla valutazione dei diversi approcci alla gestione del capitale, con particolare attenzione alle implicazioni per la costruzione di portafogli globali, dinamici ed efficienti sul piano fiscale.
L’irrilevanza del Dividend Investing: evidenze empiriche post-2008
Il Dividend Investing è una delle strategie più popolari tra gli investitori italiani, promossa da consulenti finanziari come approccio “sicuro” per costruire rendite passive.
Ma è davvero così efficace?
Abbiamo condotto un’analisi quantitativa approfondita dal 2009 al 2024, e i risultati mettono in discussione alcune convinzioni radicate, suggerendo la necessità di ripensare questo approccio.
Prima di addentrarci nei risultati della ricerca, è utile definire cosa si intende per Dividend Investing. Si tratta di un approccio di investimento che pone i dividendi al centro della strategia di portafoglio. In pratica, un investitore dividend-focused seleziona azioni e fondi non tanto guardando al potenziale di crescita del prezzo, ma principalmente alla loro capacità di distribuire dividendi elevati, stabili e possibilmente crescenti nel tempo. L’idea è quella di costruire un flusso di reddito passivo regolare, che molti investitori percepiscono come più sicuro e prevedibile rispetto ai capital gain.
La decisione di indagare questo fenomeno nasce dall’osservazione di un paradosso nei mercati finanziari contemporanei. Da un lato, il Dividend Investing continua a godere di enorme popolarità tra gli investitori retail e viene costantemente promosso da consulenti finanziari e blogger; dall’altro lato, esaminando la letteratura accademica recente, esiste un vuoto significativo circa studi sistematici che valutassero questa strategia nel contesto post-2008.
Perché concentrarsi proprio sul periodo post-2008? La risposta è semplice: i mercati finanziari degli ultimi sedici anni hanno attraversato una trasformazione epocale, caratterizzata da fenomeni economici mai verificatisi nel corso della storia moderna. Il contesto geopolitico ed economico è profondamente mutato rispetto ai decenni precedenti, rendendo obsolete molte delle assunzioni su cui si fondavano le strategie tradizionali. Basti pensare, ad esempio, alle politiche espansive adottate dalle banche centrali, con l’attuazione di programmi di quantitative easing che hanno immesso trilioni di liquidità nel sistema finanziario globale. Inoltre, i tassi di interesse erano prossimi allo zero o addirittura negativi in alcuni paesi. Parallelamente, è emerso un fenomeno che ha rivoluzionato il modo in cui le aziende restituiscono valore agli azionisti: l’esplosione dei programmi di buyback. In molti casi, i buyback hanno superato i dividendi come principale canale di distribuzione del valore. Eppure, la letteratura finanziaria ha prestato scarsa attenzione a questo cambio di paradigma e alle sue implicazioni per le strategie dividend-oriented.
C’è poi un terzo elemento di discontinuità che ha caratterizzato quest’era: l’evoluzione tecnologica dei mercati finanziari. La democratizzazione dell’accesso agli investimenti attraverso ETF a bassissimo costo e piattaforme di trading accessibili a chiunque abbia uno smartphone ha cambiato radicalmente il panorama. Gli investitori retail oggi hanno accesso a strumenti di diversificazione globale che un tempo erano prerogativa esclusiva degli investitori istituzionali.
Di fronte a questi cambiamenti strutturali, la ricerca accademica presentava lacune evidenti.
- Mancavano studi su larga scala che coprissero l’intero arco temporale post-crisi.
- I mercati europei e asiatici erano sostanzialmente trascurati, con un focus quasi esclusivo sugli Stati Uniti.
- Nessuna analisi aveva tentato di integrare la prospettiva quantitativa sulla performance con quella comportamentale sulle decisioni degli investitori.
Era necessaria, insomma, una nuova analisi empirica che tenesse conto di questo contesto radicalmente nuovo.
Per effettuare l’analisi quantitativa, abbiamo costruito un campione rappresentativo che includesse diverse tipologie di investimenti, permettendo confronti significativi tra approcci contrapposti.
Abbiamo selezionato tre ETF specificamente focalizzati sui dividendi, tra cui Vanguard FTSE All-World High Dividend Yield e iShares STOXX Global Select Dividend, e li abbiamo confrontati sistematicamente con tre ETF benchmark che replicano il mercato generale, come Vanguard FTSE All-World e iShares MSCI World.
Per arricchire l’analisi con una prospettiva a livello di singole azioni, abbiamo incluso nel campione cinque titoli famosi per gli alti dividendi, rappresentativi di settori tradizionalmente generosi nelle distribuzioni: Shell, British American Tobacco, Allianz, Telefonica e Unilever. A questi abbiamo contrapposto cinque growth stock tra le più capitalizzate al mondo: Amazon, Google, Tesla, Netflix e Salesforce. Queste aziende storicamente hanno distribuito pochi o nessun dividendo, preferendo reinvestire gli utili nella crescita del business.
I risultati
La prima evidenza emersa dall’analisi quantitativa è inequivocabile: le strategie dividend mostrano una sottoperformance sistematica rispetto al mercato generale. I modelli fattoriali di Fama e French rivelano che gli investimenti focalizzati sui dividendi producono alpha negativi statisticamente significativi, compresi tra il -1,2% e il -3,6% all’anno. Questo significa che, dopo aver aggiustato per tutti i fattori di rischio, gli investimenti dividend-oriented hanno sistematicamente reso meno rispetto al mercato globale. Non stiamo parlando di piccole differenze statisticamente irrilevanti, ma di gap significativi che nel lungo periodo fanno una differenza sostanziale sul capitale finale dell’investitore.
La seconda evidenza è forse ancora più sorprendente perché contraddice frontalmente una delle narrative più diffuse nel mondo degli investimenti: quella secondo cui le azioni ad alto dividendo rappresenterebbero un asset difensivo che protegge il portafoglio nelle fasi di ribasso del mercato azionario. I nostri dati dimostrano esattamente il contrario, rivelando una maggiore vulnerabilità delle strategie dividend durante le crisi di mercato.
Prendiamo il caso emblematico della crisi COVID del 2020. Gli ETF dividend hanno registrato perdite del 31,2%, superiori di 2,6 punti percentuali rispetto al 28,6% subito dai benchmark di mercato generale. Ma non solo hanno perso di più durante la fase di discesa: ci hanno messo anche più tempo a recuperare, richiedendo quattordici mesi per tornare ai livelli pre-crisi invece degli undici mesi necessari agli ETF broad-market.
Durante la crisi del debito sovrano europeo del 2011-2012, il pattern si è ripetuto in modo quasi identico. Le dividend stock hanno subito perdite aggiuntive comprese tra il 5% e il 10% rispetto al mercato generale e hanno impiegato ben diciotto mesi per tornare ai livelli pre-crisi.
Questo fenomeno apparentemente controintuitivo trova spiegazione in diverse ragioni strutturali. Molte aziende ad alto dividendo sono concentrate in settori ciclici e maturi che soffrono particolarmente durante le recessioni economiche. Inoltre, queste società sono spesso costrette a tagliare proprio i dividendi durante le crisi per preservare la liquidità, deludendo le aspettative degli investitori e provocando ulteriori ribassi nel prezzo delle azioni, esattamente quando gli investitori avrebbero più bisogno di quella stabilità promessa.
Le implicazioni pratiche
Questi risultati hanno implicazioni concrete per chiunque stia costruendo o gestendo un portafoglio di investimento. Le strategie dividend presentano diverse criticità strutturali che vanno oltre la semplice sottoperformance misurata dall’alpha negativo.
C’è innanzitutto il problema della concentrazione settoriale: gli ETF dividend tendono inevitabilmente a concentrarsi in pochi settori tradizionali come utilities, telecomunicazioni, energia convenzionale e beni di consumo difensivi, perdendo esposizione ai settori più dinamici e innovativi dell’economia contemporanea. Questa concentrazione riduce la diversificazione effettiva del portafoglio e aumenta l’esposizione a rischi settoriali specifici.
Si aggiunge poi l’inefficienza fiscale intrinseca di questa strategia. In Italia, i dividendi sono tassati al 26% nel momento stesso della distribuzione. Al contrario, la crescita del capitale con ETF ad accumulazione non subisce alcuna tassazione fino al momento della vendita. Questa differenza di trattamento fiscale rappresenta un vantaggio significativo per le strategie orientate al total return rispetto a quelle focalizzate sui dividendi.
L’alternativa supportata dai dati emersi dalla nostra analisi quantitativa è chiara: un portafoglio diversificato globalmente attraverso ETF broad-market, con focus sul total return complessivo anziché esclusivamente sul reddito da dividendi, e ottimizzazione fiscale attraverso strumenti ad accumulazione conformi alla direttiva UCITS. Questa strategia è più semplice da implementare, più efficiente dal punto di vista fiscale, offre una diversificazione superiore e, come dimostrano i nostri dati, performa meglio nel lungo periodo. Gli investitori che necessitano di flussi di cassa regolari possono semplicemente vendere quote del loro portafoglio quando necessario, una soluzione più flessibile e fiscalmente efficiente.
Questa ricerca conferma, con dati aggiornati al contesto contemporaneo, la validità della teoria dell’irrilevanza dei dividendi formulata da Modigliani e Miller nel 1961. I dividendi, in sé, non sono il fattore chiave per creare valore nel lungo periodo.
I dividendi, dunque, non sono negativi in sé. Sono semplicemente uno dei modi in cui un’azienda può restituire valore agli azionisti, insieme ai buyback e al reinvestimento nella crescita del business. Il problema nasce quando si mettono al centro della strategia di asset allocation per la parte “core” del proprio portafoglio. I dati raccolti nella nostra analisi quantitativa ci dicono chiaramente che questa scelta ha un costo misurabile in termini di performance, efficienza fiscale e resilienza durante le crisi. Un costo che, nel lungo periodo, può tradursi in differenze patrimoniali sostanziali.