La finanza comportamentale è la scienza che studia gli aspetti psicologici ed emotivi legati all’investimento e ai mercati finanziari. Ne abbiamo parlato in un primo articolo dal titolo “Che cos’è la finanza comportamentale?”. Come abbiamo visto, ci sono due tipi di bias, quelli cognitivi e quelli emotivi di cui ci occuperemo in questo contributo.
I bias cognitivi nascono da scorciatoie mentali (euristiche) che ci offrono soluzioni pratiche e veloci in situazioni di incertezza.
I bias emotivi, non sono invece scorciatoie mentali, ma sono distorsioni generate dalle proprie paure o desideri. I bias emotivi fanno parte di molti processi cognitivi automatici e, agendo a un livello inconscio o subconscio, guidano molti dei nostri giudizi e delle nostre decisioni.
L’avversione alle perdite
Perdere – a monopoli, a tennis o una scommessa – è brutto. Ed è molto più brutto perdere di quanto non sia bello vincere. La psicologia umana sembra proprio fatta così: è più forte la tristezza che proviamo nel perdere rispetto alla gioia che proviamo nel vincere.
Nel contesto finanziario, ci arrabbiamo di più se perdiamo 100 euro di quanto non gioiamo nel guadagnare la stessa somma. Secondo alcuni studi1, la percezione (negativa) della perdita è da due a tre volte superiore rispetto a quella (positiva) del guadagno. Si tratta chiaramente di un bias; dal punto di vista razionale guadagni e perdite dovrebbero essere valutati in modo speculare e perdere 100 euro dovrebbe essere tanto brutto quanto è bello guadagnarne 100.
Le implicazioni in ambito finanziario del bias di avversione alle perdite sono molteplici: in generale, gli investitori tendono a vendere troppo presto gli strumenti in guadagno e troppo tardi quelli in perdita.
Spesso, gli investitori si trasformano in trader speculativi se sono in guadagno – “vendo perché ho raggiunto il mio prezzo target”– e in investitori a lunghissimo termine se sono in perdita – “prima o poi recupererò”. Questi sono tentativi di razionalizzare dei comportamenti dettati dall’avversione alle perdite.
Si vende troppo presto quando si guadagna perché, per chi è avverso alle perdite, è meglio guadagnare poco che nulla.
E si vende troppo tardi quando si perde perché, per chi è avverso alle perdite, si spera, o più spesso ci si illude, che un certo titolo non possa continuare a perdere valore per sempre, e così si aspetta di tornare in pari per vendere. Molto spesso, però, ciò non accade e l’illusione che prima o poi tutto recuperi è uno dei bias che più danneggia l’investitore. Se è vero che i mercati nel lungo periodo aggiornano sempre nuovi massimi, questo vale appunto per il mercato nella sua interezza, non per questa o quella società che può perdere, in modo definitivo, un quarto, un mezzo o anche tutto il suo valore.
1 – La “Teoria del Prospetto” di Kahneman e Tversky.
L’avversione al rimpianto
È brutto perdere, ed è altrettanto brutto trovarsi a fare i conti con i rimpianti. Affrontare un rimpianto è così emotivamente pesante che tendiamo ad agire e decidere in modo tale da non trovarci, in futuro, a rimpiangere qualche nostra azione o scelta. Anche questo è un bias: il bias dell’avversione al rimpianto (regret aversion bias).
Il bias dell’avversione al rimpianto ha un peso enorme nella nostra vita finanziaria.
La maggior parte degli investitori ha probabilmente venduto Nvidia (o Amazon, o Apple,…) una volta raddoppiato il capitale iniziale per non dover rimpiangere, in un ipotetico e drastico ritracciamento futuro, di non aver realizzato un’operazione così profittevole. La scelta di vendere non è stata, cioè, dettata da considerazioni sul reale valore della società in questione, sulle sue prospettive di crescita e così via, ma su un fatto della propria psicologia personale: evitare possibili rimpianti.
L’avversione al rimpianto porta anche a commettere la così detta fallacia dei costi irrecuperabili (sunk cost fallacy).
La fallacia dei costi irrecuperabili consiste nel continuare a fare una certa attività ormai chiaramente poco proficua, semplicemente perché si sono investite molte risorse (tempo, energia, soldi, speranze, ecc.) in essa.
Leggiamo un libro anche se vediamo che non ci piace semplicemente perché l’abbiamo comprato e iniziato e ci sembra uno spreco non leggerlo. Ma così facendo, oltre ad aver usato male i nostri soldi, finiamo per infliggerci anche la “tortura” di una lettura noiosa. Purtroppo, quei soldi spesi male per un libro che non ci piace non sono recuperabili.
Anche la fallacia dei costi irrecuperabili influenza potentemente le nostre scelte di investimento.
In finanza, cambiare opinione sulla bontà di un certo titolo sarebbe come ammettere di aver sbagliato a valutarlo quella volta, con conseguenti rimpianti. E così, anche in questo caso, si decide di tenere il titolo in portafoglio non perché si sia veramente convinti che sia la scelta corretta, ma perché l’ammissione dell’errore e il conseguente rimpianto sono troppi forti per farci cambiare idea.
L’Effetto Dotazione
Le persone tendono a conferire maggior valore ai beni in loro possesso rispetto ad altri beni simili. Questo bias si chiama “effetto dotazione” (endowment effect) edè molto conosciuto e sfruttato nel campo del marketing. La possibilità di personalizzare un certo prodotto lo rende di valore maggiore agli occhi del consumatore, anche se in realtà la sostanza e/o funzionalità sono le medesime.
In ambito finanziario, si riscontra l’abitudine a dare maggior valore a proprietà finanziarie o immobiliari che si sono ereditate rispetto ad altre disponibili sul mercato. Se il nonno aveva il quasi intero patrimonio nelle azioni Eni, che gli avevano sempre pagato un ottimo dividendo e che erano cresciute nel tempo, si pensa che sia in qualche modo sbagliato venderle o diversificarle. Il possesso e la storia familiare danno loro un’aurea quasi magica.
Eccesso di confidenza
Una delle distorsioni più comuni tra gli investitori è l’eccesso di confidenza (overconfidence) nelle proprie capacità. Esiste una ricca letteratura di esperimenti condotti su analisti, gestori o manager in cui si chiede ai soggetti se si considerino nella media rispetto ai loro colleghi oppure superiori/inferiori alla media. Il risultato è che la maggior parte di essi si considera superiore alla media. Questa, ovviamente, è una pura e semplice impossibilità statistica che non fa altro che rilevare quanto sia diffuso il bias dell’eccesso di confidenza.
Questo bias si manifesta socialmente in quell’atteggiamento, poco apprezzato, che è l’arroganza. E si manifesta, cosa più importante per i nostri fini, in scelte di investimento che possono rivelarsi deleterie per chi le compie. L’eccesso di confidenza può portare a un trading eccessivo sulla base di qualche risultato passato che si attribuisce unicamente alle proprie abilità piuttosto che riconoscere come collegato anche ad altri fattori (il mercato, la fortuna, ecc.).
Se si è particolarmente confidenti nelle proprie capacità, si finisce per trascurare il rischio, per tralasciare informazioni importanti e per non considerare ipotesi alternative alle proprie convinzioni. Ray Dalio, fondatore del più grande hedge fund al mondo (Bridgewater Associates), ha attribuito molto del suo successo a una continua lotta contro il bias dell’overconfidence.
Conclusione
Essere un buon investitore significa, anche, saper riconoscere e trattare i vari bias emotivi che sorgono nella gestione di un portafoglio. Tutti, chi più e chi meno, ne sono potenzialmente affetti. Come nel caso dei bias cognitivi, la scelta più saggia è quella di affidarsi a un professionista che conosca a fondo non solo l’ingegneria finanziaria, ma anche le insidie dei bias emotivi e le varie forme in cui possono presentarsi nelle scelte di investimento.